Sequestri di massa. Cosa accade nei Cpr

Lontani da occhi indiscreti e senza alcun contatto con l’esterno. Blindatissimi: accedere al loro interno senza permessi è impossibile e può succedere che i permessi concessi vengano revocati senza preavviso. Di fatto strutture carcerarie che ospitano circa cinquecento migranti in detenzione amministrativa, persone che non hanno commesso alcun reato. Questi i Cpr – Centri per il rimpatrio – presenti sul territorio italiano. Il 15 aprile 2024, il Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI), che riunisce oltre 40 organizzazioni della società civile italiana (tra cui Recosol, Arci, Amnesty, Asgi, Casa dei Diritti Sociali, Cgil, Cies, Cnca, Forum per cambiare l’ordine delle cose, Refugees Welcome), in collaborazione con numerosi parlamentari e consiglieri/e regionali dei principali gruppi di opposizione (Pd, M5S, Avs e +Europa), ha effettuato visite e raccolto informazioni negli otto Cpr attivi in Italia: Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Milano, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Bari, Restinco (Brindisi), Caltanissetta e Macomer (Nuoro). Quanto emerso conferma quello che precedenti inchieste avevano già rilevato: senza eccezioni, i Cpr sono di fatto luoghi di detenzione dove le persone sono abbandonate a sé stesse, inconsapevoli dei propri diritti e sul loro futuro.

La delegazione TAI ha potuto parlare con alcuni ospiti dei centri e da questi colloqui sono emerse le criticità maggiori: sensazione di spaesamento, estraneazione, non sanno perché siano in questi luoghi e per quanto tempo dovranno restarci, non sono stati informati dei loro diritti. Prendono farmaci e non sanno perché. Non sempre è garantita la loro privacy, sicuramente nelle celle, ma anche nelle toilette e nei colloqui con gli avvocati, quando esistono. Sono state riscontrate criticità sanitarie che sollevano rilevanti preoccupazioni. Dalle patologie gravi conclamate e non trattate, alla somministrazione di psicofarmaci in maniera massiccia. Altraeconomia lo aveva denunciato in un report presentato nell’aprile 2023 alla Camera – Rinchiusi e sedati – e dati alla mano aveva dimostrato che l’utilizzo di psicofarmaci nei Cpr rispetto a un servizio Asl che prende in carico una tipologia di persone simile è spropositato: 160 volte in più a Milano, 127,5 a Roma, 60 a Torino e così via. Il ministro Piantedosi intervistato al riguardo nella trasmissione PiazzaPulita aveva dichiarato di “escludere nella maniera più categorica che vi sia un orientamento della gestione dei Centri finalizzata alla sedazione di massa. C’è una richiesta da parte degli ospiti. Fare il confronto tra le prescrizioni all’esterno e all’interno delle strutture non ha senso perché è più facile che nei Cpr si concentrano persone per cui quel tipo di prescrizioni si rivela normale” dimenticando che dal punto di vista medico la eventuale “richiesta” dei trattenuti non giustifica nulla: gli psicofarmaci vengono somministrati a discrezione del personale sanitario. Sempre.

Nell’indagine del 15 aprile sono stati inoltre rilevati scarsi protocolli di collaborazione e di attivazione di reti territoriali per i servizi sanitari e per gli altri servizi associati, compresi per tossicodipendenze e benessere delle persone. In un centro non consegnano l’informativa scritta perché non è possibile portare carta nella cella per asserita ragioni di sicurezza. Mancano gli elenchi degli avvocati, assenti o rari i mediatori culturali. Nel contesto di strutture spesso fatiscenti, con servizi igienici precari, gli spazi comuni sono nulli o scarsi. Anche quando ci sono mense non sono usate, si mangia in cella la porzione di cibo che arriva in box da forniture esterne. Anche quando c’è una palestra, può essere usata limitatamente. Nessun televisore o un solo televisore per un numero consistente di persone. A Roma attendono da tempo che vengano chiusi due tombini pericolosi nel campo di calcio, di fatto perciò inagibile. “Con l’estensione del periodo di detenzione nei Cpr da 90 giorni a 180 – ha detto il direttore del Cpr di Roma – la vita delle persone all’interno dei Cpr è diventata più dura. Non siamo attrezzati per una lungo permanenza, le persone non possono organizzarsi la propria giornata e alcuni rimpiangono il carcere, dove almeno potevano cucinarsi i pastiInsomma, carceri in cui le persone sono “detenute” e ricordiamolo senza aver commesso alcun reato e con l’unico scopo – per lo più irrealizzabile – di essere rimpatriate, mentre non vedono garantiti i diritti previsti per i detenuti nelle carceri italiane.

Un recente report di Actionaid, redatto in collaborazione con l’università di Bari, sul sistema detentivo per stranieri – Trattenuti – ne analizza tutti gli aspetti: dagli enti gestori, le strutture, le tipologie di appalti sino alle criticità delle persone accolte. Nel rapporto si evidenzia tra l’altro l’evoluzione delle logiche di affidamento della gestione dei Cpr che inizialmente privilegiavano attori umanitari come la Croce Rossa Italiana mentre ora i criteri di selezione sono essenzialmente mirati al ribasso dell’offerta favorendo con ciò la penetrazione del mercato da parte di soggetti for-profit e di grandi multinazionali specializzate in servizi legati alla gestione di strutture detentive. Il caso di ORS Italia Srl, una holding svizzera la cui filiale italiana si sta espandendo sia nel campo dell’accoglienza dei richiedenti asilo che della detenzione amministrativa, è abbastanza significativo. ORS Italia Srl viene già citata da Amnesty International in un rapporto del 2015, e dall’Ong Droit de Rester nel 2018: le due organizzazioni denunciano le condizioni inumane in un centro di accoglienza austriaco e la cattiva gestione delle strutture di accoglienza di Friburgo. Oggi è l’ente gestore del Cpr di Roma e, prima della sua chiusura temporanea, di quello di Torino. Ma non è l’eccezione purtroppo.

Insomma quali sono i vantaggi di questo sistema? Costi altissimi di gestione ordinaria e straordinaria, nessun riscontro sociale utile: le persone trattenute vivono in condizioni disumane, non sono utili alla società che li ospita (!), né possono aspirare ad un futuro dignitoso, nessun guadagno se non per chi gestisce questi luoghi sulla cui integrità morale ci sono sin troppe ombre. I rimpatri? A fronte di un costo complessivo di quasi 53 milioni di euro, il 72% dei quali relativi a pagamenti erogati agli enti gestori, la percentuale dei provvedimenti di espulsione effettivamente eseguiti non supera mai il 32% ed è negli ultimi anni in forte decrescita.

Le ispezioni effettuate dal TAI e dalla delegazione di parlamentari e associazioni ha certamente avuto il merito di riportare all’attenzione pubblica uno scandalo che gli addetti ai lavori hanno più volte denunciato evidenziando come nessuna direttiva o altro atto normativo europeo prevede l’istituzione di queste strutture disumane, che da più di venticinque anni mostrano di essere inutili e inefficaci anche per gli scopi per i quali sono state introdotte nel Testo Unico sull’Immigrazione del 1998.

Articolo pubblicato su https://comune-info.net/rinchiusi-in-strutture-disumane/

Vedi anche quest’agghiacciante servizio: https://www.fanpage.it/roma/la-storia-di-ousmane-sylla-morto-di-accoglienza-spacchiamogli-la-testa-a-sta-gente/

Cronaca di più morti annunciate

L’undici marzo il giornale radio Rai delle 10 annunciava con un comunicato sintetico e scarno che dal giorno prima – la sera del 10- era scomparsa dai radar un’imbarcazione con circa 85 persone a bordo partita dalla Libia. Alarmphone aveva ricevuto una richiesta di soccorso per avaria del motore. Passano le ore e nessun altro giornale radio, telegiornale, agenzia rimbalza la notizia. Recuperare informazioni sembra impossibile, non si sa più nulla e intanto le condizioni meteorologiche  peggiorano. Del resto la  notizia era stata passata quasi sotto silenzio e non ha catturato l’attenzione pubblica e poiché ogni giorno siamo abituati a sentire di imbarcazioni che affrontano il mare per raggiungere le nostre coste, nessuno o quasi ci fa più caso. Poi il 14 marzo arriva la notizia, quella che si temeva, quella che non avremmo mai voluto sentire e  che non si poteva più tacere: 60 persone morte a bordo di un’ imbarcazione in avaria al largo della zona Sar  Libica. Giorni e giorni di terrore, di tentativi di inviare richieste di aiuto, di disperazione e di complice silenzio. Sono sopravvissuti solo in 25, 13 uomini e 12 minori. Le donne, un bambino e tutti gli altri sono morti.  Erano partiti l’8 marzo da Zawiya, in Libia e il motore si è rotto dopo tre giorni, lasciandoli alla deriva senza acqua né cibo, secondo la ricostruzione dell’equipaggio della Ocean Viking che li ha soccorsi. I superstiti sono tutti in condizioni critiche con ustioni da carburante, sintomi di ipotermia, shock. Due di loro, in condizioni di incoscienza,   sono stati trasportati con un elicottero della guardia costiera in ospedale. Nonostante ciò all’Ocean Viking  è stato imposto lo sbarco ad Ancona rifiutando le richieste di approdare in un porto più vicino  date le drammatiche condizioni dei sopravvissuti. “Dato che Ancona dista 1.450 chilometri dalla posizione attuale della Ocean Viking, abbiamo chiesto alle autorità marittime italiane di concedere un porto sicuro più vicino” hanno dichiarato dall’Ong. La nave che nell’arco di due giorni –tra il 13 e il 14 marzo – ha raccolto in mare oltre duecento superstiti deve ora continuare il viaggio perché in Italia chi soccorre è punito: dal due gennaio 2023 è infatti in vigore il decreto legge “Piantedosi” che ha stravolto completamente l’applicazione del quadro giuridico marittimo e internazionale in materia di ricerca e soccorso in mare.  Le navi di soccorso civile vengono trattenute e multate e vengono assegnati loro  porti sicuri lontani, impedendo in questo modo alle navi di riprendere il pattugliamento e il salvataggio di altre imbarcazioni in difficoltà. Un decreto crudele formulato mentre nel Mediterraneo centrale già nel primo trimestre  gennaio-marzo 2023 è stato raggiunto il record del  più letale dal 2017 con 441 vite perse  e disperse – dati Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni unite. Però nulla si è fatto per evitare che quest’ennesima tragedia avesse corso, non si conoscono i responsabili che hanno ricevuto le richieste di aiuto e che non hanno fatto nulla per evitare che ciò accadesse. La notizia di richieste di aiuto sono arrivate, lo abbiamo sentito nel notiziario nazionale delle 10 dell’11 marzo, eppure nessuno ha attivato i soccorsi e soprattutto sulla notizia è calato un silenzio sospetto. Almeno fino ad oggi.

Dalla parte degli ultimi, il report Last20

Conoscere oggi i fenomeni che regolano territori e nazioni “lontani” e fuori dal focus della comunicazione mainstream è complicato, bisogna ricorrere a informazioni di settore, ricerche ed inchieste specifiche e spesso, troppo spesso si perde la visione d’insieme. Siamo calati nella realtà occidentale che nonostante la comunicazione globale corra sempre più veloce e ci raggiunga ovunque in ogni luogo, continua a fornire una visione parziale e limitata di quanto accade nel nostro pianeta. E’ questa la prima impressione che colpisce quando si legge il secondo report annuale dell’associazione Last20 che prende il nome dalla contrapposizione con G20. Un report importante che capovolge la visione del mondo partendo da quelle realtà, comunità, nazioni, aree geografiche, lontane dai nostri radar ma che subiscono pesantemente le azioni dei Paesi più potenti e le cui conseguenze arrivano sino a noi.  Gli Last20 sono gli ultimi della Terra, quei Paesi che ricoprono gli ultimi posti degli indicatori statistici per qualità della vita, benessere, ricchezza. L’associazione L20, costituitasi formalmente nell’ottobre 2022, ha iniziato la sua attività nel 2021 quando l’Italia ha ospitato il vertice dei G20, il vertice dei più “grandi” della Terra, promuovendo un controvertice degli L20 a Reggio Calabria e successive altre  tappe in diverse località italiane. L’ obiettivo dell’associazione  è quello di leggere il mutamento – economico, sociale, ambientale e politico – dai “margini”, dare voce agli Ultimi e far conoscere questi Paesi, la loro storia, cultura, e i loro bisogni emergenti.

Paesi poveri e Paesi impoveriti, distinzione forse sottile ma emblematica se si pensa ad esempio alla Libia che  prima dell’eliminazione di Gheddafi e dell’avvio di una guerra tra clan sostenuti ancora una volta da potenze straniere (Russia, Turchia, Francia, Italia, GB) occupava il 64° posto dell’ ISU -Indice Sviluppo Umano- e oggi è dilaniata da un conflitto armato con il chiaro obiettivo di mettere le mani sulle sue enormi riserve di petrolio. Oppure il Libano,  che negli Anni ’70 del secolo scorso era considerato la Svizzera del Mediterraneo e oggi è un Paese che vive essenzialmente delle rimesse dei migranti e ha al suo interno una divaricazione sociale spaventosa con una minoranza ricca e straricca che vive di rendita immobiliare e speculazioni finanziarie  e traffici illegali e una maggioranza ridotta alla fame sia di libanesi che di immigrati, in particolare i circa 2 milioni di profughi tra palestinesi e siriani che non hanno diritto alla cittadinanza dato che il Libano non ha mai firmato la convenzione di Ginevra. Quindi analizzare le cause della povertà e dell’impoverimento è il primo passo essenziale per conoscere le motivazioni che spingono le grandi potenze a fare determinate scelte invece di altre e non in ultimo, andare alla radice di un fenomeno planetario come le migrazioni.

Come si sta evolvendo la situazione degli  L20 in questa fase post-globalizzazione e che ruolo hanno le grandi potenze mondiali? Inutile forse sottolineare che le principali cause di impoverimento sono le guerre e i conflitti spesso generati da interessi economici delle grandi potenze eppure qualcosa sta cambiando. Un ruolo importante lo sta svolgendo il BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) un raggruppamento di economie mondiali emergenti che dal primo gennaio 2024 si è ampliato anche a Repubblica Araba di Egitto, Repubblica Federale Democratica di Etiopia, Repubblica Islamica dell’Iran, Regno dell’Arabia Saudita, Emirati Arabi. L’Argentina che inizialmente aveva mostrato interesse ad aderire, con la presidenza del neo eletto Javier Milei ha rinunciato. Pur con toni pacati, il gruppo nasce per contrastare l’egemonia delle nazioni occidentali su organismi importanti come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che con i loro prestiti sono i maggiori creatori di debito estero per le nazioni in cui intervengono e  aspira a guadagnarsi una maggior rappresentanza tra le economie emergenti. Nel 2014, i paesi BRICS hanno istituito la Nuova banca per lo sviluppo (NDB) per prestare denaro a quei Paesi che vogliono investire in infrastrutture e per sostenere la crescita dei paesi che ne usufruiscono. I BRICS stanno inoltre lavorando  per costruire un loro originale sistema monetario e contribuire anche in tal modo  a una maggior stabilità ed equilibrio dei mercati finanziari mondiali. Infatti, alla fine del 2022, la banca aveva prestato quasi 32 miliardi di dollari ai paesi emergenti per la costruzione di nuove strade, ferrovie e sistemi per l’  approvvigionamento idrico. La presenza di potenze quali Cina e Russia all’interno dei Brics è a tutti evidente e i segni della loro influenza, soprattutto in Africa, sono già tangibili. Ora, con l’ingresso dell’Iran, si rafforzerà l’asse anti occidentale capitanato dalla Russia in uno  scenario geo politico  in evoluzione con equilibri molto delicati  come del resto possiamo già vedere dall’escalation di  conflitti in atto. Resta comunque il fatto che gli  ultimi 20 Paesi al mondo continuano ad essere abbandonati a sé stessi  nell’indifferenza della comunità internazionale  anche di fronte a disastri e carestie di cui è parte in causa.

La politica internazionale non ha alcun interesse a pacificare e a creare condizioni di mercati giusti e solidali per queste aree. Eppure  è  solo decentrando l’angolo visuale nelle periferie e semiperiferie dell’economia mondiale che è possibile comprendere  fenomeni attuali quali le migrazioni. Il report L20 riporta il focus sui punti di partenza delle migrazioni perché “la scarsa conoscenza degli scenari migratori interni ai Paesi del Sud contribuisce a criminalizzare questi territori, che pagano molto spesso le conseguenze di una rigidità posturale piuttosto diffusa nell’Occidente post-industriale: quella dovuta all’abitudine consolidata, tanto a livello mediatico che a livello politico e talvolta anche in ambito scientifico, di leggere le migrazioni posizionando lo sguardo nei Paesi di arrivo. Al contrario, spostare l’asse della narrazione lungo le direttrici dei flussi migratori che attraversano i cosiddetti “Paesi di partenza” al loro interno, permetterebbe di bilanciare la conoscenza del fenomeno e, di conseguenza, mettere a punto strategie e politiche di più ampio respiro, in grado cioè, di superare l’ossessione della frontiera per intervenire realmente sulla qualità delle economie, i bisogni socio-educativi, la sicurezza alimentare e le sfide ecologiche in quello che è un grande Sud globale”. Insomma “decostruire la narrazione dell’esodo dal Sud al Nord del mondo, osservando, per esempio, che nell’Africa occidentale, descritta dai più come una fonte di migrazione irregolare verso l’Europa, circa il 64% dei migranti si sposta verso un’altra destinazione dello stesso quadrante, come il Gabon o la Guinea Equatoriale. Non conoscere queste nuove rotte – alcune delle quali sono peraltro consolidate da tempo – significa compiere scelte inadeguate, come ad esempio le politiche di esternalizzazione dei confini dell’Unione Europea”. Conclusioni che trovano sostegno anche nell’analisi delle statistiche affrontate nella seconda parte del report su migrazioni,  rifugiati e sfollati, per conflitti e per motivi ambientali, nonché rimesse e i loro costi. Inoltre vengono esaminati PIL, PIL pro capite, sua crescita, dimensioni della popolazione e sue caratteristiche salienti (numerosità, crescita della popolazione, aspettativa di vita, tasso di fertilità e mortalità perinatale e infantile, età mediana e tempo di raddoppio). Significativi i dati sulle persone sottonutrite e bambini sottopeso, popolazione che vive negli slum e nelle baraccopoli e sulla mortalità dovuta a condizioni igienico sanitarie insufficienti, numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà nazionale e internazionale, sull’analfabetismo e sulla diversa ripartizione di genere. Insomma un’analisi completa della situazione dei Paesi più poveri e dimenticati del pianeta con infine, nella terza parte, testimonianze dirette da questi luoghi:  Mozambico, Afghanistan, Libano, Ciad, Corno d’Africa che corredano un lavoro ampio ed esaustivo, un report completo da leggere, consultare a cui attingere per avere un’informazione corretta non su luoghi dimenticati ma su quella parte di mondo che sempre più ci riguarda da vicino. Qui il report. Per richiedere il volume scrivere a: info@cdse.it

L’emergenza che non c’è. Il dati IDOS 2023

Si è tenuta il 26 ottobre presso il Teatro Orione a Roma la presentazione del 33° Dossier Statistico Immigrazione a cura di IDOS, in collaborazione con il Centro Sudi e rivista Confronti, l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” e grazie al sostegno dell’Otto per Mille della Tavola Valdese. Presentato in contemporanea in tutte le Regioni italiane, il dossier ancora una volta si è rivelato uno strumento efficace per descrivere il fenomeno migratorio odierno sia in Italia che nel mondo. Nel 2022 sono state circa 295 milioni le persone – uomini, donne, bambine e bambini – che hanno abbandonato il proprio Paese, circa un abitante ogni 30 sulla Terra. A fronte di un continuo e costante aumento delle persone che emigrano su tutto il pianeta, in Italia da cinque anni a questa parte, la presenza di stranieri si mantiene pressoché costante: 5 milioni di persone, l’8,6% della popolazione del nostro Paese. Le nazionalità maggiormente rappresentate in ordine decrescente sono quella rumena, marocchina, albanese, cinese e recentemente per evidenti motivazioni legate alla guerra in atto, quella ucraina.

È certamente questo un dato rilevante su cui dovremmo oggi riflettere, già ribadito in precedenza e confermato dai vari studi di settore e che smentisce la narrazione di un Paese che è schiacciato dalla massa umana che arriva da ogni dove. È anche interessante rilevare che se la popolazione straniera si mantiene costante, la popolazione italiana dal 2020 al 2022, registra oltre un milione di unità in meno mentre aumenta il numero degli italiani che espatriano: ad oggi sono circa sei milioni gli italiani residenti all’estero, per lo più giovani. Il dossier rileva inoltre che il contributo degli immigrati all’economia italiana e al suo sistema di protezione sociale è decisamente positivo: nel 2021 il saldo tra spese (28,2 miliardi di euro) e introiti (34,7 miliardi di euro) dello Stato imputabili all’immigrazione ha segnato un guadagno per l’erario pubblico di 6,5 miliardi di euro, fortemente cresciuto rispetto al 2020 (circa 1 miliardo di euro in più) grazie alla ripresa post-pandemica dei settori in cui gli stranieri sono più impiegati quali professioni non qualificate, addetti alle pulizie, badanti, operai, ambiti lavorativi spesso sottopagati a cui sempre meno italiani si rivolgono.

Sono trascorsi cinquant’anni da quel lontano 1973 in cui la crisi petrolifera mondiale trasformò l’Italia, per la prima volta nella sua storia recente, da nazione di emigrati in un Paese di immigrazione ma ancora si continua a parlarne come un fenomeno a carattere emergenziale. Anni e anni di politiche allarmistiche e securitarie hanno modellato l’immaginario collettivo e nei confronti dei migranti, si è passati dall’empatia, al sospetto, alla repulsione, all’inimicizia, all’odio e talvolta alla gelida indifferenza. Non sorprende perciò se lo straniero è visto ormai come una minaccia che sottrae risorse, posti di lavoro, ruba, è un rischio per la sicurezza nazionale tanto che le disposizioni concernenti l’immigrazione vengono denominate “decreti sicurezza” dal precedente ministro degli interni Matteo Salvini. Eppure era soltanto il 1989 quando in agosto, l’omicidio di un richiedente asilo sudafricano – Jerry Masslo – nelle campagne casertane scosse la coscienza collettiva a tal punto che ne scaturì la più partecipata manifestazione antirazzista che l’Italia ricordi e, successivamente, la riforma legislativa sul diritto di asilo. Oggi, di fronte alla morte di migliaia di richiedenti asilo in mare, lungo la rotta Balcanica, nelle campagne, nei centri di permanenza per il rimpatrio, nelle baraccopoli, restiamo impermeabili e forse un po’ infastiditi. Come è stato possibile arrivare ad un cambiamento sociale così radicale? Luca Di Sciullo, direttore di Idos lo spiega così:

Articolo pubblicato su: https://comune-info.net/migranti-in-italia/

“Immaginiamoci”, un laboratorio per immagini

Immaginiamoci – storie e racconti per immagini – nasce dall’esigenza di aiutare le persone migranti a raccontarsi attraverso l’uso delle immagini che ognuno porta con sé, nel proprio cellulare, nel proprio cuore, nei propri ricordi. Un laboratorio di cinque incontri ognuno realizzato in due SAI della Calabria, Gioiosa Ionica e Cinquefrondi,  due progetti di accoglienza con una lunga storia virtuosa di inclusione sociale gestiti da Recosol e dalla coop. Sankara che ospitano persone adulte e famiglie. Attraverso le immagini è più facile permettere alle persone di parlare di sé – cosa solitamente difficile a chi ha un vissuto di sofferenza alle spalle -, con le immagini  si possono descrivere profumi, sapori, recuperare ricordi, stimolare la curiosità verso i Paesi di origine, dimostrare perciò interesse verso il mondo che queste persone hanno lasciato per arrivare da noi. Le immagini ci hanno raccontato di pietanze, piatti tipici impossibili da riprodurre in Italia ma certamente gustosi, luoghi incantevoli di risaie, pianure, montagne e deserti ma anche di lunghi cammini e di traversate pericolose. Mancano le foto dei soggiorni in Libia o in altri lager dato che chi vi è incappato, ha perso tutto: trattati peggio delle bestie gli hanno sottratto documenti, soldi, cellulare. Non sono mancati però anche scoppi di risate nel raccontare episodi  avvenuti “a casa” e momenti di commozione e orgoglio nel mostrare le immagini dei familiari lontani. Piccole gemme preziose, attimi di vita che abbattono differenze di ruoli e di status, operatori e nuovi cittadini si sono potuti scambiare in questo modo esperienze, ricordi.

A Cinquefrondi il laboratorio si svolgeva nella Mediateca comunale ed era aperto a tutti e  in uno di questi incontri in cui si parlava di cibi e pietanze è nata la proposta di organizzare una cena a base di lasagne, su richiesta di una famiglia afghana. La cucina italiana generalmente non suscita l’interesse degli stranieri ospiti dei progetti, essendo così lontana dalle loro abitudini alimentari con qualche eccezione per la pizza, il gelato e i cornetti. Eppoi la pasta, elemento principe non è ben vista: non la si trova in natura, è un prodotto industriale, serve una fabbrica per farla e questo è già un forte elemento discriminante e poco comprensibile, soprattutto per chi viene dall’Africa. Ma le lasagne sono altra cosa, ricordano vagamente alcune pietanze dell’Est e si possono fare in casa. Dato che erano presenti alcune signore del luogo,    è stata avviata immediatamente la macchina organizzativa: fissata la data, trovata la sede, avvertito il sindaco. Un fuori programma che alla fine ha coinvolto quasi l’intero paese e il risultato è stato strabiliante: una cena sociale con cibi tipici della tradizione calabrese e ovviamente con lasagne fatte in casa. Alla fine dei laboratori  sono state raccolte oltre cento foto che sono state esposte la prima volta nel cortile del comune di Gioiosa Ionica suddivise per temi: il paese di origine, la famiglia e gli affetti, i sapori di casa, il viaggio, il presente con le foto orgogliosamente esposte degli autori, i veri protagonisti della mostra che hanno collaborato anche all’allestimento, alla scelta dei pannelli e alla loro collocazione cronologica.

Qui alcuni racconti dei partecipanti al laboratorio. Per ovvi motivi di privacy i nomi sono stati cambiati e non è stato specificato il luogo dove sono state raccolte   le testimonianze.

“Non volevo venire in Europa” , l’idea era quella di andare in Libia, “lì c’è lavoro” dicevano. E così, appena recuperati i soldi del viaggio – due voli, prima per Dubai e poi per Il Cairo – Arshad ha trovato un passaggio per la Libia. Sa fare tutto con le mani e lavorare non lo spaventava, anzi. L’idea di realizzare un po’ di denaro per costruire una casa per la sua famiglia, lo elettrizzava. Voleva farla lui, mattone dopo mattone. Una volta ricavato un gruzzolo sufficiente, avrebbe persino potuto pensare di trovarsi una fidanzata e mettere su famiglia. In Bangladesh non aveva avuto fortuna, lavoro non ce n’era e la miseria in cui viveva, lui e la sua famiglia, lo ha costretto a partire. Del suo Paese amava tutto, dai cibi, speziati e gustosi, alle risaie e le ninfee… sì, le ninfee. Tra le cose che più ricorda con nostalgia ci sono le distese acquatiche  colorate di ninfee di cui ci mostra delle foto: uno spettacolo unico, meraviglioso. Arrivato in Libia, carico di buona volontà, è stato sequestrato da una banda di “mafiosi” locali che lo hanno prima segregato, privandolo dei documenti e del cellulare, e poi costretto a lavorare per loro. Di quel periodo non parla volentieri, abbassa gli occhi e si ammutolisce. Un periodo nero fatto di privazioni, umiliazioni e molestie ripetute, questo è certo. Alcuni suoi connazionali, anche loro incappati nella rete di aguzzini senza scrupoli, lo hanno raccontato senza entrare nei particolari. Non era necessario, gli sguardi parlavano chiaro e alla fine l’importante è che siano usciti da quella trappola infernale seppur portandone ferite fisiche e psicologiche evidenti. Sono giunti in Italia costretti dai loro stessi aguzzini che, dopo averli sfruttati, hanno chiesto un riscatto ai loro familiari per “liberarli”. Chi ha pagato tremila euro, chi cinquemila. Le famiglie hanno ricevuto le immagini di loro imprigionati e torturati e sono stati costretti ad  indebitarsi per “liberarli”. Spediti su gommoni semi sgonfi, sono arrivati da noi. Arshad e i suoi connazionali vivono ora in un paese del sud Italia dove sono stati accolti in un SAI, non hanno un buon rapporto con il mare, il solo vederlo li spaventa. Stanno imparando l’italiano e  pensano al futuro. Spesso chi emigra e affronta un viaggio simile in realtà non ha sogni nel cassetto, ambizioni personali. Tutti hanno lo stesso  desiderio: sognano di potersi muovere liberamente su questo pianeta, viaggiare e rivedere i propri cari. Arshad pensa sempre alla casa che vuole costruire per i suoi cari, avere un lavoro – qualsiasi – ci tiene a dirlo, che gli permetta di vivere e poter fare progetti di vita. Gli piacerebbe vivere in un luogo dove la pratica che la sua religione gli impone, possa essere comune, qui in Italia vive in solitudine i rituali quotidiani e questo è motivo di grande tristezza per lui.

Anche Musa, ragazzo ventenne della Sierra Leone, non voleva venire in Europa. E’ partito dal suo Paese che aveva poco più di sedici anni. A casa aveva avuto problemi con alcuni connazionali, è cresciuto, poverissimo, con una zia e non aveva conosciuto suo padre e sua madre. Giovanissimo si era ammalato e dopo un lungo periodo di malattia aveva deciso di andarsene. E’ partito a piedi da Freetown, ha attraversato la Guinea, il Mali per giungere in Algeria dove sperava di lavorare, di costruirsi una vita propria. Anche qui, giovane senza esperienza, è stato subito intercettato da mafiosi locali per i quali è stato costretto a lavorare per due anni. Poi la fuga in Marocco, sempre a piedi o con mezzi di fortuna, dove è rimasto per diversi mesi e poi attraverso l’Algeria è arrivato in Tunisia. Sperava di fermarsi lì, si trovava bene, aveva anche iniziato a lavorare e aveva incontrato una ragazza nigeriana di cui si è innamorato e con la quale ha avuto un bambino.  Una sera, rientrando dal lavoro, è stato catturato in una retata della polizia e portato in carcere. Sembra che in Tunisia siano frequenti le retate di “neri” che dopo essere stati arrestati e schedati non possono più lavorare in questo Paese e sono costretti perciò a partire. Privato dei suoi pochi soldi, del cellulare e dei documenti e in più con un bimbo appena nato, Musa non aveva altra scelta che andarsene. Riesce a partire con la famiglia aiutato da alcuni compagni di cella e grazie ad un tunisino che – invece di prendere denaro – gli ha permesso di collaborare alla costruzione della piccola imbarcazione con la quale raggiunge, straordinariamente incolume – l’isola di Lampedusa.

 In Italia cerca di orientarsi in questo nuovo contesto, ben diverso dalla Sierra Leone e da tutti gli altri posti dove è stato e transitato in questi ultimi anni. Quattro in tutto, una vita, per un ragazzo partito adolescente e ritrovatosi padre di famiglia. “Bello avere acqua e luce in casa” dice. Il resto è così strano. Nel luogo dove vive manca un centro vero e proprio, un punto di aggregazione dove le persone si incontrano e si parlano, è questa la cosa che rileva per prima, quella che gli sembra veramente “strana”. “Qui si vive in casa, isolati”, lui, abituato al clima e alla vita del suo Paese, si sente un po’ a disagio, eppure è felice di avercela fatta e spera di poter studiare e viaggiare. Del suo Paese rimpiange la bellezza, il sole, i profumi e la cucina. Ha tenuto una lezione sul Crain crain, una pianta dall’aspetto simile allo spinacio che è molto usata nella cucina della Sierra Leone, gli brillavano gli occhi mentre ci descriveva alcune ricette. Musa non ha chiaro perché il suo Paese sia così povero, perché la maggior parte della gente –circa il 60 per cento della popolazione – viva in condizioni di indigenza essendo un Paese dove si estraggono diamanti, ferro, bauxite. Non lo sapeva neanche. Ha preso la sua condizione come un dato di fatto, senza porsi domande, senza cercare risposte. Lui come molti –troppi altri – ha semplicemente capito che per sopravvivere doveva andarsene. Il modello a cui aspira è quello occidentale senza sapere che proprio quel mondo è la causa della sua condizione. La storia della Sierra Leone  è legata alla tratta degli schiavi, al colonialismo arrogante e violento dell’Inghilterra e della Francia, eventi a noi ben noti. Musa però, nonostante il suo viaggio che vale un’intera esistenza, resta un ragazzo, un ragazzo che vuole qualcosa di più dalla vita. Sappiamo ora che senza avvertire, lui e la sua famigliola si sono  rimessi in viaggio, hanno lasciato il progetto SAI dove erano stati inseriti. Probabilmente sperano di trovare opportunità migliori, non immagina cosa significhi oggi uscire da un progetto di accoglienza in Italia, come vivono i migranti –specie se di colore – da noi. Chi lavora nell’accoglienza conosce bene queste situazioni eppure ogni volta è un lutto, una sconfitta. Due storie tra le tante di viaggi interminabili, torture nei lager libici, nei campi profughi in Turchia  -finanziati dall’Europa -o nelle carceri della Tunisia –Paese questo riconosciuto dall’Italia e dall’Europa come  “sicuro” -, respingimenti violenti delle polizie lungo la rotta balcanica più volte denunciati e documentati da associazioni e testate giornalistiche, eppure ogni singolo racconto incrementa il quadro orribile di questa storia di migrazioni perché ogni persona ha un suo vissuto, a volte lungo anche anni, di sofferenza, di abusi e stupri,  di ingiustizie impunite. Esseri umani in cammino senza colpe ridotti a pedine di un gioco al massacro. Assurdo e terribile pensare che  chi riesce a raccontarlo è comunque un fortunato, uno che ce l’ha fatta.  Guardano solo avanti, quello che è accaduto prima di giungere al sicuro è il passato, un passaggio necessario per raggiungere una meta e alla fine a loro è andata bene, questo conta. Non c’è rancore e rabbia per le umiliazioni subite, solo ricordi tristi di un passato che non gli appartiene più, inshallah.

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Eppur si muove. A cinque mesi dalla strage di Cutro

Con l’arrivo della stagione calda si è intensificata l’attività nel Mediterraneo  con conseguente aumento degli sbarchi sulle nostre coste:  a Reggio Calabria oltre duecento persone sono ospitate nelle palestre della città, gli hotspot di Lampedusa e Roccella sono al collasso.  Non mancano purtroppo segnalazioni quasi quotidiane di morti dispersi in mare o corpi giunti senza vita, una realtà questa a cui ci si sta pian piano assuefacendo: 26.257 persone sono morte o risultano disperse dal 1 gennaio 2014 al 31 marzo 2023 nel mar Mediterraneo e solo quest’anno, da gennaio ad oggi, oltre 500 persone hanno perso la vita nella traversata. Così, la notizia di due madri giunte a Reggio Calabria a metà luglio senza i propri figli, bambini  piccoli di 3-4 anni, morti nella traversata, non è quasi degna di nota.   Secondo i dati del Viminale,  dall’inizio dell’anno sono sbarcate in Italia oltre 73.400 persone, mentre  lo scorso anno, nello stesso periodo erano state meno della metà. L’emergenza accoglienza si sta diffondendo su tutto il territorio nazionale e le nuove disposizioni post strage di Cutro, con il dl 20/23 non solo hanno tolto la tutela legale,  l’assistenza psicologica e persino i corsi di lingua italiana, ma non forniscono soluzioni generando confusione e smarrimento tra i vari livelli interessati: amministratori, prefetti, enti gestori e non ultimo i migranti stessi. Sono circa 100mila le persone inserite attualmente nel nostro sistema d’accoglienza: circa il 70% è distribuito tra grandi strutture e  i Cas, -Centri di accoglienza straordinaria -, mentre circa il 30% viene inserito nei Sai, il Sistema di accoglienza e integrazione che ha sostituito gli Sprar e che prevede l’adesione volontaria delle amministrazioni comunali accoglienti. 

Recentemente le contraddizioni sono esplose in Veneto dove il prefetto Salvatore Caccamo ha “abbandonato” tra l’11 e il 12 luglio, venti immigrati sulle panchine di sei Comuni vicentini: 3 migranti sono stati letteralmente scaricati   davanti al municipio di Cornedo Vicentino,  stessa cosa a  Sovizzo. A Castelgomberto due persone originarie del Mali e una del Gambia sono state ospitate negli spogliatoi del campo di calcio. Un’altra quindicina di migranti sono stati lasciati nelle piazze davanti ai municipi o alle poste di Comuni che nella Provincia non praticano accoglienza. Il prefetto si è giustificato  spiegando che spesso nei CAS sono ospitate persone oltre la capienza consentita e a suo avviso,  l’unica soluzione possibile era coinvolgere direttamente i comuni “volenti o nolenti”. Del resto anche  il presidente della Regione Luca Zaia lo ha più volte ribadito ai sindaci, soprattutto in vista dell’arrivo imminente di circa quattromila persone nella Regione Veneto entro fine agosto. La situazione è a dir poco incandescente a tal punto da  far saltare l’incontro tra prefetto e  54 sindaci della Provincia previsto per il 13 luglio.  C’è confusione anche all’interno della Lega sulla posizione da prendere in merito alla gestione dell’accoglienza: mentre tra  alcuni sindaci leghisti si inneggia ai centri di accoglienza, recintati e lontano da ogni agglomerato urbano, Zaia ora (dopo aver osteggiato per anni il sistema SPRAR) rilancia il modello dell’accoglienza diffusa, promuovendo un protocollo per la gestione dei migranti in collaborazione con l’ANCI, l’associazione dei comuni, e le prefetture. “Pochi, per tutti” è il principio su cui si basa il protocollo mentre il suo omologo del Friuli, Massimiliano Fedriga continua a ribadire che il modello SPRAR- SAI  «è un grandissimo fallimento»  e servono  “centri controllati, con numeri sostenibili” nonostante la sua Regione sperimenti da anni e con successo la micro-ospitalità.  Anche  nell’Alto Vicentino l’accoglienza è pratica diffusa ed esiste un’esperienza virtuosa di lunga data (alcuni Comuni fanno accoglienza da prima del 2000) che coinvolge numerosi  Comuni firmatari di un protocollo di reciproca collaborazione che prevede l’inserimento di 3 migranti ogni mille abitanti.  Ma c’è di più. Lo scorso anno, la prefettura di Vicenza ha siglato un accordo di collaborazione,  in piena emergenza ucraina, con 32 Comuni –  La tenda di Abramo- con il benestare del ministero dell’Interno. L’accordo prevede la gestione dell’accoglienza in Cas, con Santorso capofila, ma con l’impegno di garantire assistenza e servizi  come da protocollo  SAI, mantenendo  il criterio di distribuzione 3×1000. Di fatto  un accordo che  permette una rapida gestione dell’accoglienza, oggi estesa non più soltanto a profughi ucraini, con requisiti di qualità certificati.  C’è tensione  anche in Toscana dove la prefetta di Firenze Francesca Ferrandino  ha convocato sindaci, prefetti e questori toscani per discutere dell’ingresso di 50000 immigrati in Italia. Nei prossimi due mesi è previsto l’arrivo in Toscana di  3511 immigrati più i minori non accompagnati.  Insomma agitazione e caos un po’ ovunque. Suonano perciò profetiche le parole di Franco Balzi, sindaco di Santorso, che  lo scorso  7 luglio all’assemblea promossa dal comune di Bologna sulle Città Accoglienti ha dichiarato:… Neutrali invece non si può essere in questo campo: o si sceglie di seguire una strada innovativa o la si rifiuta. Dobbiamo denunciare le responsabilità di chi in modo chirurgico e cinico porta avanti queste politiche, a livello nazionale; ma dobbiamo anche discutere delle responsabilità politiche e tecniche del mancato sviluppo e crescita del sistema come sistema realmente unico, realmente nazionale, realmente diffuso e realmente emancipante. Dobbiamo affrontare noi per primi Il tabù che ha tollerato il sistema pubblico dell’accoglienza integrata e diffusa come un’eccezione minoritaria, incapace di sfidare ad esempio il nodo dell’adesione volontaria al programma, anche a costo di perdere progressivamente la propria identità. Siamo stati nella migliore delle possibilità “una buona prassi, una eccellenza”, destinata però a rimanere tale e che ha accettato di non farsi sistema: quindi una esperienza costitutivamente limitata, per pochi, in pochissimi territori, con un orizzonte precario e limitato.

Ed è proprio nell’essere “un’esperienza costitutivamente limitata” il vero problema. La soluzione è semplice, di facile realizzazione: piccoli numeri, in percentuale al numero degli abitanti, inseriti nel contesto cittadino su tutto il territorio nazionale, persino il presidente Zaia lo ha capito. Oltre vent’anni di storia Sprar ci consegnano testimonianze di numerosi progetti di accoglienza ben riusciti, con ottime percentuali di inclusione sociale. In molte realtà la presenza di migranti e rifugiati ha permesso la rigenerazione urbana,  riavviato micro economie. La sicurezza cittadina, laddove sono stati applicati criteri di distribuzione territoriale ed inclusiva, non è mai stata a rischio mentre sappiamo che nei CPR (centri per il rimpatrio) che si vogliono implementare e istituire in ogni regione, dove gli ospiti vivono in condizione di alienazione e detenzione, la situazione è spesso molto critica.  La gestione del fenomeno migratorio non può e non deve  essere emergenziale ma strutturata perché   nonostante i numerosi sbarchi   ci facciano  temere all’invasione, dati alla mano, le presenze sul territorio  mantengono quasi inalterate le stesse percentuali da oltre dieci anni:  cinque milioni di stranieri, pari a circa il dieci per cento della popolazione, riconfermando ancora una volta  che il nostro Paese è da sempre terra di transito e non di permanenza.

Le donne di Carmagnola

Tanti colori, tavoli rotondi per pranzare guardandosi negli occhi e conversare anche tra persone incontrate per caso. A casa Frisco, con cinque euro si mangia a menù fisso, grazie al recupero quotidiano dell’invenduto. Odori e sapori che invogliano a sedersi e a degustare la mensa, ben dispongono e invitano al dialogo. Il nostro primo impatto con l’associazione Karmadonne, che gestisce la mensa, è stato qui, in quest’edificio della parrocchia di San Francesco a Carmagnola (To).

Con un fortunato gioco di parole – Carma da Carmagnola ma anche Karma che nella tradizione induista significa l’avanzare, il raggiungere e il divenire – le socie già nel nome dicono molto di loro: un’associazione tutta (o quasi) al femminile che crea collaborazioni e relazioni. Erano gli inizi del 2000 quando un gruppo di donne che frequentavano il corso di italiano hanno cominciato a conoscersi e man mano a trovare sempre più momenti di incontro, di voglia di stare insieme. Peruviane, marocchine, indiane, senegalesi, rumene, donne provenienti da luoghi lontani ma desiderose di trovare “casa”, una dimensione accogliente e affettiva dove stare bene e non sentirsi sole. Il resto è venuto abbastanza naturalmente e oggi Karmadonne è una realtà composta da settecento soci, con una trentina di socie che ogni giorno gestiscono le numerose attività avviate: scuola popolare, corsi di italiano per stranieri, aiuto compiti e sostegno ai ragazzi delle scuole medie e superiori, mensa popolare, servizio catering, corsi di yoga, ginnastica, cucito per il confezionamento e la vendita di abiti etnico-italiano, e persino un corso di chitarra. Lo scopo è sempre lo stesso e tutto ruota intorno alla promozione umana nel territorio, e in particolare alle donne.

Progetti quindi che mirano all’accoglienza, all’accettazione, al sostegno, all’emancipazione e alla promozione delle capacità e delle potenzialità delle donne straniere ma non solo. Un impegno che è rivolto ovviamente anche a bambini e bambine, adolescenti, giovani e gruppi familiari che si trovano in difficoltà perché la solidarietà non ha distinzioni.

Angela Inglese, presidente dell’associazione così descrive Karmadonne: “Vivere un laboratorio di cittadinanza che parte dal basso e che porta le idee, i progetti e la forza di tante donne native e migranti che per caso si sono incontrate su un sogno comune: mettere insieme le differenze, fonderle e dar vita a qualcosa di assolutamente nuovo. Così nasce Karmadonne”. Per sopperire alle piccole grandi difficoltà che ogni giorno le persone meno abbienti incontrano, l’associazione ha avviato degli sportelli sociali che offrono consulenze specifiche: Sportello Donna, un punto informativo contro le discriminazioni che offre anche consulenza legale e Sportello Genesi per la ricerca del lavoro (ma anche di opportunità formative). Tutti servizi completamente gratuiti e gestiti da volontari competenti della parrocchia di borgo Salsasio e dell’Unità pastorale della Diocesi di Torino.

Nel grande giardino adiacente alla sede di Karmadonne – che a metà giugno ha ospitato l’incontro nazionale di Recosol – tanti bambini giocano a pallone o si rincorrono, le mamme chiacchierano tra di loro in un mix di provenienze lontane che aprono il cuore. È dal 2016 che Karmadonne gestisce in modo molto aperto e virtuoso anche un CAS (Centro di accoglienza straordinaria per migranti), iniziando con un primo gruppo di dieci ragazzi, tutti giovanissimi. La scelta viene spontanea e nonostante la giunta leghista abbia chiuso a suo tempo lo SPRAR, Karmadonne accoglie seguendo i canoni dell’accoglienza diffusa: piccoli numeri -non oltre i 35 ospiti – distribuiti in quattro appartamenti e nell’housing di Casa Frisco. Quella che un tempo era definita dai carmagnolesi “la casa dei moru “ – la casa dei neri – oggi è un punto di riferimento per l’intera collettività e “sono quasi esclusivamente italiani che frequentano il corso di ginnastica come pure il cucito e la mensa. Mentre per l’aiuto compiti ragazzi sono in maggioranza ragazzi di famiglie straniere come pure il corso di italiano per adulti” racconta Angela.

Ogni persona è un universo a sé e ogni cultura ha le sue peculiarità e caratteristiche in continuo divenire. Non è semplice lavorare e supportare persone di nazionalità diverse in un contesto che non sempre è accogliente “Non è mai facile, quando ti relazioni con le persone. Persone che portano tutto il peso delle loro storie faticose sia richiedenti asilo che migranti – continua Angela – A Karmadonne abbiamo dedicato un numero incalcolabile di ore all’incontro, all’ascolto, alla cura, insomma alla relazione. Mi sento di dire che il nostro segreto sta nella cura e nella relazione delle persone senza volerle cambiare ma accettandoci così come siamo. La loro cultura si fonde con la nostra cultura per dare vita alla nostra nuova cultura”. Si tratta perciò di ripensare prima di tutto il modo di relazionarsi con l’altro, di immaginare una comunità che cresce e si modifica. In pratica, un semplice cambio di lettera, per dirla con Marco Aime, basta sostituire integrazione con interazione. Questo è quanto in tutti questi anni l’associazione Karmadonne è riuscita a costruire con altre realtà del territorio e non solo: un’esperienza in continua crescita di una società multietnica, accogliente e solidale.

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L’uomo del veliero, storia di Bahram Acar

Era il primo luglio del 1998 quando un veliero con a bordo circa trecento profughi provenienti dal Kurdistan sbarcò sulla costa ionica calabrese, nel territorio della frazione di Riace Marina. In quell’occasione, in mancanza di un organico intervento statale, la comunità riacese improvvisò una prima accoglienza tramite l’impegno di volontari del luogo, tra cui il futuro sindaco Domenico Lucano. I profughi furono temporaneamente alloggiati presso una struttura ecclesiastica, la Casa del Pellegrino, poco distante dal borgo e normalmente adibita a ospitare i pellegrini che si recavano in visita al santuario. Fu così che nacque il progetto di accoglienza di Riace, noto oggi in tutto il mondo. In quel periodo furono diverse le navi di curdi che arrivarono sulla costa jonica, forse perché il loro presidente Abdullah Ocalan,  leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), stava progettando di chiedere asilo politico in Italia. Il partito era stato dichiarato “organizzazione terroristica” e i rapporti tra Turchia e Siria, che sosteneva il PKK e ospitava Ocalan, si erano per questo molto irrigiditi, tanto da rischiare persino un conflitto armato: le autorità siriane si rifiutarono di consegnare Abdullah Ocalan alla Turchia, ma gli chiesero di lasciare il paese. All’epoca, in Italia il governo era guidato da Massimo D’Alema, che si era insediato nell’ottobre del 1998, dopo la caduta del governo di Romano Prodi. Ocalan arrivò in Italia il 12 novembre dello stesso anno, dimostrando da subito di essere un problema di non facile soluzione. La gestione del caso fu alla fine molto criticata: sia per le modalità dell’arrivo in Italia del leader curdo dalla Russia, sia per la mancata concessione dell’asilo politico da lui richiesto, sia per l’esito finale della vicenda. Ocalan rimase infatti in Italia 65 giorni e il 16 gennaio 1999, fu fatto partire per Nairobi, in Kenya. Pochi giorni dopo, il 15 febbraio 1999, fu catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi durante un trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi. Fu poi rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in Turchia, nell’isola di İmralı, dove da allora vi risiede completamente isolato. Questa la storia del contesto storico in cui molti curdi sono stati costretti a lasciare il loro Paese e del perché, alcuni di loro, hanno preferito dirottarsi verso le nostre coste. La maggior parte di loro però, una volta giunti in Italia, alla luce anche dei fatti accaduti, ha ripreso il cammino verso il nord, con l’intenzione di raggiungere la numerosa comunità curda tedesca e a Riace e dintorni non è quasi rimasta traccia di questo passaggio. Ad eccezione di Bahram Acar che ha deciso di fermarsi perché quel posto gli ricordava il suo villaggio d’origine. Veniva da Midyat, provincia di Mardin, nel Kurdistan turco, un paesino sul monte Ararat dove il fiume bianco e il fiume nero confluiscono. Sentiva forte il senso di “essere comunità” dove tutti si conoscono e si aiutano e a Riace allora era proprio così: erano gli anni in cui il paese si stava rianimando dal torpore della rassegnazione, dal senso di degrado e abbandono che colpisce molte realtà dell’entroterra italiano. I profughi avevano rivitalizzato la comunità e il paese si era trasformato in un grande cantiere: impalcature, via vai di muratori, elettricisti, pittori. Si stavano ristrutturando le case abbandonate dai compaesani emigrati in Argentina per ospitare i nuovi emigrati da ogni dove. Il veliero arrivato qualche tempo prima aveva indicato la via per la rinascita e Bahram era nel suo, sapeva fare tutto e soprattutto amava sentirsi utile. Sorrideva poco, al massimo storceva la bocca come una smorfia quando era contento ma i suoi occhi dicevano chiaramente quale fosse il suo stato d’animo. Quella era la sua nuova casa, lì voleva restare. Abitava in un “buco”, un alloggio tra i vicoli del borgo, dove tornava giusto per mangiare e dormire e il resto del giorno era sempre in giro, il primo ad arrivare e l’ultimo a ritirarsi.

L’ho incontrato la prima volta nel 2016 a Riace e da allora, Bahram Acar ed io siamo rimasti sempre in contatto. Non scorderò mai le passeggiate a Camini, tre chilometri soltanto separano i due comuni, tre chilometri tra i calanchi della Calabria aspra e brulla. Bahram parlava male l’italiano, non aveva avuto tempo né voglia di impararlo veramente, ma ci capivamo. Ci piaceva la domenica mattina mentre tutti erano a messa, andare a camminare “a Camini”, prendere un caffè o una birretta e poi ritornare. Erano probabilmente le uniche ore “libere” di quest’uomo devoto alla causa come pochi, senza apparente vita privata ma molta coerenza politica. Riace rappresentava allora un’utopia concreta che andava difesa, la casa di tutti aperta a tutti e Bahram da veterano, sentiva tutto il peso della sua responsabilità. Aveva visto arrivare tanta gente disperata, aveva visto il paese accogliere con la naturalezza delle famiglie numerose di una volta, dove aggiungere un posto a tavola non è un problema perché “dove si mangia in quattro, si mangia anche in cinque”, come da tradizione popolare calabrese. Nell’anno del nostro incontro erano iniziati i problemi a Riace, i finanziamenti arrivavano a singhiozzo, c’era malessere tra i beneficiari dei progetti di accoglienza. Domenico Lucano era spesso nervoso, diviso tra burocrazia, sempre più complessa e i bisogni delle persone: mentre il ministro Minniti si preoccupava di complicare il lavoro delle rendicontazioni degli Sprar, le persone chiedevano cibo, le bollette e i fornitori andavano pagati. Si lavorava in un clima di forte tensione e Bahram era ovunque ci fossero problemi da risolvere. La speranza di una soluzione comunque era ancora abbastanza accesa anche perché Riace in quel periodo godeva di grande visibilità. Da tutto il mondo venivano a conoscere quest’incredibile realtà e in molti si erano attivati per mandare sostegni di ogni tipo. Poi sappiamo come è andata a finire: prima il ministro Minniti e poi Salvini hanno svuotato il paese di Riace e con i decreti sicurezza, quello che era il simbolo della convivenza pacifica di tante culture e della rinascita dei borghi abbandonati, è precipitato nel baratro dell’abbandono, di quel destino che aveva osato sfidare. Bahram non voleva crederci, ancora una volta stava rivivendo un copione già visto, ancora una volta i valori di solidarietà, cooperazione, comunità, principi cardine della sua vita di uomo e di curdo, venivano negati: la comunità accogliente di Riace come il popolo curdo non avevano diritto di esistere.

Come il destino del suo popolo, costretto alla fuga e alla clandestinità, ora anche Riace, il paese dell’accoglienza, era sotto attacco. Erano trascorsi vent’anni dal suo arrivo, e, fortemente motivato dalla sua convinzione politica, dagli ideali di giustizia sociale e di riscatto degli ultimi, aveva trovato in questo piccolo paesino del Sud Italia il luogo dove sentirsi coerente e vivere in una società più “giusta” ma ora purtroppo i tempi erano cambiati e bisognava prenderne atto. Nel 2019, nel nostro ultimo incontro, mi aveva accennato ad un viaggio in Germania dai parenti e da alcuni compagni curdi che si erano radicati lì. “Dove esattamente?” gli chiesi ma non ho avuto risposta. In realtà Bahram è stato sempre molto cauto a dare informazioni di sé e anche gli amici più stretti non conoscevano i particolari della sua vita privata e del suo rapporto con il PKK in Kurdistan. Sappiamo che era un ricercato e che se fosse rientrato in Turchia, sarebbe stato condannato a morte ma sappiamo anche che almeno una volta, nel 2014, è riuscito a tornare con un visto turistico, per salutare i genitori e i fratelli. Non aveva riconosciuto quei luoghi, tanto erano cambiati. Ci rendeva partecipi delle tradizioni del suo popolo, abbiamo una nutrita collezione di balli e danze curde, foto di boschi, ruscelli, case in terra cruda… era il suo modo di condividere con noi la nostalgia di casa. Ma non ci ha mai fornito elementi che ci avrebbero potuto estorcere, dati sensibili che avrebbero nuociuto alla causa. Paranoico forse, ma sicuramente scrupoloso. Era anche il suo modo di proteggerci e ci dimostrava il suo affetto in altre molteplici maniere, un amico prezioso, raro al giorno d’oggi. Ha lasciato Riace come un capitano che non vuole lasciare la sua nave che affonda e fino alla fine ha voluto sperare in un miracolo che lo trattenesse. Gli ultimi anni li ha trascorsi in Germania da cui settimanalmente mi scriveva, solo per sapere se stavo bene e poco altro. Non era bravo a scrivere in italiano ma per lui l’essenziale era pensarmi “bene”. E così fino all’ultimo messaggio al quale non ho fatto in tempo a rispondere. Improvvisamente il nostro amico forte e coraggioso ci aveva lasciato. Pur mancando da Riace da quattro anni, il pensiero che Bahram non possa ritornarci e non possa più fare parte di quella comunità è struggente. Bahram incarnava l’essenza di quel meraviglioso progetto che menti perverse hanno voluto stroncare. Bahram era l’anima di Riace. Ora la sua salma è stata riportata al suo paese d’origine e riposa tra le colline del suo villaggio, di quel villaggio da cui era partito e dove avrebbe voluto un giorno tornare da uomo libero.

Le tre rotte

Tra fine settembre‐inizio ottobre 2022, la Polonia accoglieva più di 1,4 milioni rifugiati dall’Ucraina (primo Paese UE), ma oltre un milione si trovavano in Germania. Molto più ridotti i numeri dell’Italia, 171 mila circa. In meno di sei mesi, da marzo ad agosto 2022, i soli 27 Paesi membri dell’UE hanno riconosciuto almeno 2.842.000 protezioni temporanee.

Nella prima sezione del rapporto, Dal mondo con lo sguardo rivolto all’Europa (Fondazione Migrantes) si evidenzia come nel periodo 2021‐22 siano aumentate le persone in fuga a causa della pandemia, dei conflitti e delle crisi climatiche. Nel 2022, il numero di persone in fuga ha superato la soglia dei cento milioni in tutto il mondo ma oltre il 70 per cento cerca rifugio in uno Stato confinante e solo una piccola parte arriva in Europa. Quelli che si avventurano, in mancanza di canali d’ingresso legali e sicuri sono costretti, anche se protetti dal diritto internazionale, ad affidarsi ai trafficanti e a mettere a rischio la propria vita affrontando viaggi estenuanti e pericolosi: le due rotte principali sono state quella del Mediterraneo centrale e quella Balcanica. Alla fine di ottobre 2022 la stima (minima) dei rifugiati e migranti morti e dispersi nel Mediterraneo è poco inferiore alle 1.800 unità ma solo sulla rotta che porta verso l’Italia e Malta si sono contati 1.295 morti e dispersi, contro i 172 del settore occidentale e i 295 di quello orientale. In quest’ultimo, alcuni gravi incidenti negli ultimi mesi hanno già portato il valore provvisorio del ’22 quasi al triplo di quello totale del 2021 (“solo” 111 fra morti e dispersi). Il 2021, invece, aveva visto crescere le vittime rispetto all’anno precedente in tutti e tre i settori, con un drammatico più 57 per cento nel Mediterraneo centrale. In questo tragico quadro si inserisce una nuova rotta pericolosissima che nel 2021 ha visto un aumento impressionante di morti e dispersi: la rotta dell’Atlantico occidentale verso le Canarie dove, dalle 877 vittime stimate nel ’20 si è passati alle 1.126 del ’21 (+ 28 per cento).

Negli ultimi tre anni, per morti e dispersi la rotta verso l’arcipelago spagnolo si è rivelata più pericolosa anche di quella del Mediterraneo centrale per numero di morti dispersi in rapporto agli arrivi: una vittima ogni 20‐30 migranti sbarcati. Il 2021 verrà anche ricordato per il triste “record” del numero di migranti intercettati dalla cosiddetta “Guardia costiera” libica: 32.400 persone contro le 11.900 del 2020. Persone riportate, o forse faremmo meglio a dire deportate, nei lager dove regnano miseria, sfruttamento, abusi, taglieggiamenti e violenze. A partire dal 2017, anno del “memorandum Roma‐Tripoli”, i “deportati di Libia” sono ormai 104.500 e dal 2016, 118 mila. Negli ultimi anni sono aumentati considerevolmente gli attraversamenti “irregolari” delle frontiere esterne dell’UE dai Balcani occidentali: dai 5.900 del 2018 ai 106.400 dei primi nove mesi del 2022, anche se la cifra, nel complesso, riflette i ripetuti, faticosi tentativi compiuti spesso da singole persone che rendono difficile un calcolo preciso visto che è praticamente impossibile passare i confini al primo tentativo e le persone sono costrette a ripete più volte (anche 10, 20 volte) il “game”.

Pushback, respingimenti illegittimi, rimpatri forzati e le barriere anti‐migranti ‐ ben 19 – che delimitano tratti di confine esterni ma anche interni alla “zona Schengen”, tutte erette negli ultimi vent’anni, non fermano comunque l’onda migratoria e la politica UE sembra essere sempre più incapace di affrontare questo fenomeno e lancia dei segnali a dir poco inquietanti.

Il report riporta nella seconda parte, Tra l’Europa e l’Italia, i risultati di un focus group realizzato tra alcuni membri dell’associazione UNIRE (Unione nazionale italiana per rifugiati ed esuli) che attualmente vivono in Italia da cui si evidenziano diverse problematiche fra cui l’atteggiamento assunto da numerosi governi europei che si oppongono ai sistemi di ricollocazione dei rifugiati, il comportamento invece ben diverso con cui è stato accolto il massiccio esodo dall’Ucraina e la necessità di garantire pari accesso su vie sicure e legali alle persone in fuga dai conflitti. Un contesto che incoraggia i richiedenti asilo in transito a ricercare nuove vie di ingresso, più sicure e meno controllate e il report offre un approfondimento sulla nuova rotta albanese. Il Paese che dopo la caduta del muro di Berlino è stato terra di esodo, oggi è diventato Paese di transito e col fenomeno di esternalizzazione delle politiche migratorie da parte dell’UE può diventare un luogo di contenimento. L’Albania, infatti, è stato il primo Paese dei Balcani occidentali ad avere siglato nel 2018 un accordo con Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) per il coordinamento delle attività di contrasto all’immigrazione irregolare, la criminalità e il traffico degli esseri umani. Per quanto riguardo i “Minostri stranieri non accompagnati” MSNA richiedenti asilo nel territorio dell’UE, il loro numero rimane (per quanto in crescita anche rispetto al biennio pre‐pandemico) a livelli molto contenuti rispetto al 2015 e al 2016: poco più di 23 mila bambini e ragazzi nel 2021, contro i 92 mila registrati nel 2015 dell’“emergenza migranti” europea e i 60 mila dell’anno successivo.

Articolo pubblicato su Comune Info: https://comune-info.net/le-tre-rotte/?fbclid=IwAR2PTfTevJcSfMUf11q4mDF0Pgk40nZRMsRuE8TLuncbmf5EQAzka66bIg0

Storia di una strage annunciata

A Cutro il 9 marzo scorso si è svolto il consiglio dei ministri. Si pensava fosse stato organizzato lì per omaggiare i superstiti della tragedia del 26 febbraio ma non sembrerebbe così, dato che le salme presso il Palamilone di Crotone hanno visto solo la presenza del Capo dello Stato accorso dopo il naufragio. La presidente Meloni, invece, in una conferenza stampa per lei complessa e imbarazzante, ha detto, incalzata dai giornalisti, di voler invitare i sopravvissuti a palazzo Chigi. Nessuna visita sul luogo del naufragio dove sono stati rinvenuti (al momento) i corpi di 79 persone di cui un terzo bambini, nessuna visita alle salme quindi e nessun incontro con i familiari venuti da ogni dove, chi dalla Germania, chi dalla Francia per sostenere i propri cari, vivi e morti.

Giovedì 9 si è così svolto un consiglio dei ministri per “discutere” di quanto in realtà già deciso. Tra goffaggini prima, durante e dopo, il governo ha confermato la sua politica securitaria verso chi varca o prova a varcare i confini. In sintesi il nuovo decreto – Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare – introduce pene più severe per i cosiddetti scafisti (cioè chi è identificato come conducente dell’imbarcazione) e un nuovo reato di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con pene da dieci a vent’anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone; da quindici a ventiquattro anni per morte di una persona; da venti a trent’anni per la morte di più persone. Decreti espulsione più rapidi e snelli e avvio dell’abolizione della protezione speciale, introdotta nel 2020 dalla ministra Luciana Lamorgese nelle modifiche ai decreti sicurezza del 2018 di Salvini. La protezione speciale è un permesso di soggiorno concesso a coloro i quali non rientrano nelle categorie riconosciute ma comunque meritevoli di essere accolti grazie al loro inserimento nella comunità. Infine, il nuovo decreto introduce nuove disposizioni per gestire i centri di accoglienza e gli hotspot. In particolare, è previsto di “derogare al codice dei contratti pubblici, consentendo una maggiore speditezza nello svolgimento delle procedure” quando si tratta di aprire o ampliare i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Una disposizione che lascia aperti molti interrogativi sulla trasparenza e la garanzia dei servizi come hanno dimostrato indagini condotte da associazioni come ActionAid e OpenPolis: dove l’affidamento è diretto, senza gara d’appalto, maggiore è il rischio di illeciti e infiltrazioni mafiose, come se questo non fosse già evidente anche ai non addetti ai lavori. Il pacchetto prevede inoltre che il decreto flussi – la concessione di permessi di soggiorno per motivi di lavoro – sia pianificato su un arco di tempo di tre anni e non sia stabilito invece ogni anno. Infine “i rinnovi del permesso di soggiorno rilasciato per lavoro a tempo indeterminato, per lavoro autonomo o per ricongiungimento familiare avranno durata massima di tre anni, anziché due come oggi”.

Un decreto legge, dunque, che sembra finalizzato a rimarcare una logica politica precisa, non curante degli effetti catastrofici generati dai tristemente noti decreti sicurezza del 2018 che hanno costretto persone con un regolare permesso di soggiorno per motivi umanitari a lasciare i progetti di accoglienza, il lavoro, i corsi di formazione e finire nella clandestinità con tutte le conseguenze prevedibili. I decreti sicurezza hanno inoltre demolito numerosi progetti di accoglienza, riducendo posti di lavoro per psicologi, insegnanti, educatori. Un delirio le cui conseguenze sono ancora percepibili agli addetti del settore.

Cosa resta di questo viaggio al Sud del consiglio dei ministri? Nella conferenza stampa Giorgia Meloni ha dichiarato guerra ai trafficanti del mare (le pene per questo reato arrivano fino a trent’anni) ma ha finto di ignorare che tra trafficanti e scafisti esiste una differenza sostanziale: gli scafisti oggi sono, nella maggior parte dei casi, giovani migranti costretti dai trafficanti a pilotare i barchini (a volte addirittura legati al timone), scelti perché giovani – meglio se minori – e istruiti per questo scopo coercitivamente. Inasprire le pene nei loro confronti non solo non risolve il problema delle mafie del mare ma va a colpire le vittime di questo traffico. Il governo ignora anche il report – compilato da diverse associazioni specializzate in immigrazione – Dal mare al carcere, dove si legge che nel 2022 in Italia sono stati arrestati circa 350 scafisti e che in molti di questi casi è stato dimostrato che le persone arrestate non sono in alcun modo implicate con le organizzazioni che hanno organizzato la traversata ma “sono l’ultimo anello di una rete molto più grande, i cui vertici rimangono nell’ombra. In più […] sono spesso anche loro migranti ai quali è stato impedito l’ingresso in Europa, e che rischiano le proprie vite per attraversare le frontiere…”.

Sorprende inoltre che Giorgia Meloni, ribattezzata dai social “giustiziera del Mediterraneo” ignori quanto accaduto in Francia: il giorno dello show di Cutro, come ricorda un articolo di Luca Casarini pubblicato dal Riformista il 9 marzo, “la polizia francese ha fermato all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi Imad Al Trabelsi, attuale ministro dell’interno libico, con una valigia piena di soldi in contanti, mezzo milione di euro, di cui il ministro non ha “saputo” dare spiegazioni…”. Il fatto è strettamente legato al Viminale dato che “il trafficante libico Trabelsi, promosso a ministro, il 21 febbraio era con Matteo Piantedosi nel suo ufficio, a Roma, per gli accordi “per fermare le partenze” dei migranti e dei rifugiati imprigionati in Libia. Che tipo sia questo galantuomo lo dice il suo curriculum: capobanda del sud ovest della Libia dilaniata del post-Gheddafi, già schedato dalle Nazioni Unite come uno dei più potenti trafficanti, a capo della milizia di Zintan”. Una conoscenza a dir poco imbarazzante per un ministro della nazione di un governo che rivendica il diritto-dovere di combattere la criminalità internazionale dei trafficanti di migranti.

Ma le situazioni imbarazzanti non finiscono qua. Il magistrato incaricato delle indagini della strage di Cutro è il procuratore capo di Crotone, Giuseppe Capoccia, che ha sviluppato la sua carriera all’ombra di Giorgia Meloni sin dal 2009, quando ricopriva l’incarico di vice capo dell’ufficio legislativo del ministro della gioventù. Un personaggio controverso e ben noto a Palazzo Marescialli, sede del CSM dove in molti vorrebbero non averlo mai incontrato, messo a capo di un’indagine che deve appurare le responsabilità dei vari attori che hanno provocato una strage come quella di Steccato di Cutro, Governo in primis. Nel CdM del 9 marzo è passato tra l’altro sotto silenzio anche il cambio al vertice della prefettura di Crotone che viene assegnato sempre nello stesso giorno all’ex vice prefetta dell’Aquila, Franca Ferraro. Una coincidenza?

Insomma, su tutta la tragica vicenda di Steccato di Cutro ci sono troppe ombre, troppe cose non chiarite. Nella nota conferenza stampa Giorgia Meloni ha chiesto esasperata se qualcuno “pensasse davvero che il governo e le istituzioni potessero fare qualcosa di diverso?”: a questa domanda risponde un esposto presentato lo stesso 9 marzo alla Procura di Crotone – proprio mentre si svolgeva la conferenza stampa -, firmato da 40 organizzazioni della società civile italiana ed europea. Sì, si poteva fare eccome. Il naufragio di Cutro era prevedibile ed evitabile e le autorità italiane responsabili devono essere chiamate a risponderne. Questo è quanto si legge nel testo. Era “prevedibile”, perché Frontex aveva inviato, come documentato, le informazioni, ed “evitabile” se “fosse stata puntualmente applicata da parte delle autorità a ciò preposte” la normativa nazionale e internazionale in tema di soccorsi in mare. Nell’esposto si chiede che vengano effettuate “indagini accurate in relazione anche alle possibili responsabilità penali delle autorità italiane, il cui operato suscita inquietanti interrogativi”, anche perché le autorità avevano “ricevuto comunicazione in merito alla presenza dell’imbarcazione diretta verso le coste italiane quasi 24 ore prima del disastro…”. Nelle 26 pagine dell’esposto si ricostruisce l’accaduto partendo dalle dichiarazioni dell’Agenzia Frontex che “nelle ultime ore di sabato (25 febbraio), un aereo di Frontex (Eagle1) che monitorava l’area di ricerca e soccorso italiana nell’ambito dell’operazione congiunta Themis ha avvistato un’imbarcazione diretta verso la costa italiana. Una persona risultava visibile sul ponte. La barca navigava in autonomia e non c’erano segni di distress. Tuttavia, le termocamere a bordo dell’aereo Frontex hanno rilevato una significativa risposta termica dai portelli aperti a prua e altri segni che potessero esserci persone sotto il ponte. Tale circostanza ha determinato i sospetti degli esperti di sorveglianza di Frontex. Come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato dell’avvistamento il Centro di Coordinamento Internazionale dell’operazione Themis e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, le immagini all’infrarosso, la rotta e la velocità”.

Quindi sapevano. Le dichiarazioni a caldo di Giorgia Meloni e del ministro Piantedosi, invece rimpallavano le responsabilità a Frontex che secondo quanto dicevano, non ha inviato adeguata e tempestiva comunicazione. Inoltre, un successivo comunicato di Frontex evidenziava due elementi importanti: non si rilevavano dispositivi di protezione individuale – lifejacket – e soprattutto, “che la barca avvistata era “fortemente sovraffollata” (heavily overcrowded), che trasportava circa 200 persone e che tutte le autorità italiane erano state immediatamente avvisate dell’avvistamento…”.

“L’informazione – si legge sempre nell’esposto – era stata veicolata altresì alla Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma, che tuttavia non assumeva alcuna iniziativa a riguardo (cfr. comunicato stampa del Comando generale delle Capitanerie di Porto)”. Ad oggi risulta che le sole attività di ricerca in mare sono state intraprese dalla vedetta V.5006 della Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Crotone e dal Pattugliatore Veloce P.V. 6 “Barbarisi” del Gruppo Aeronavale GDF Taranto, attività che sono state interrotte dopo un breve lasso di tempo e senza esito, a causa – dichiarano- delle condizioni meteo marine sfavorevoli, cosa quest’ultima, smentita da dichiarazioni autorevoli che al contrario, hanno ritenuto l’intervento di soccorso possibile, oltre che doveroso ribadendo che “tutte le persone a bordo avrebbero potuto essere salvate e la strage del 26 febbraio evitata se la macchina dei soccorsi avesse funzionato correttamente”.

“Davanti a così tanti morti e chissà quanti dispersi, è doveroso fare chiarezza – scrivono le organizzazioni in una nota – Vogliamo dare il nostro contributo all’accertamento dei fatti, non ci possono essere zone grigie su eventuali responsabilità nella macchina dei soccorsi…”. Le associazioni hanno anche rinnovato l’appello all’Italia e all’Europa per mettere in piedi al più presto un nuovo sistema di ricerca e soccorso in mare adeguato e proattivo.

A Cutro intanto si sta aspettando di rimpatriare le ultime salme, salvate in extremis da un tentativo miserabile di invio a Bologna per la sepoltura nel cimitero islamico senza l’autorizzazione dei familiari e nulla si sa sul destino dei sopravvissuti.


Per leggere l’esposto: https://www.asgi.it/notizie/naufragio-cutro-associazioni-depositano-esposto-collettivo-in-procura/

Articolo pubblicato su Comune Info: https://comune-info.net/dopo-il-naufragio/?fbclid=IwAR1TsFNDhxJ7KcCvny27V3jwX-cRtqn86JIVlzjfRfeJVRi2CyNdWD7TGc0