Questo non è un racconto

Era la primavera del 1986. Io e Pietro eravamo entrambi nati in quel periodo. Avevamo vent’anni e come molti ragazzi di allora eravamo studenti universitari squattrinati. Però quell’anno decidemmo di concederci una piccola vacanza e andare a visitare Cerveteri, per festeggiare i nostri compleanni. Senza soldi, un po’ in autostop, un po’ in pullman trascorremmo un week end fuori dal mondo tra le meraviglie del passato e il sole caldo del presente. Mi scottai persino, cosa veramente rara per una con la carnagione olivastra, tanto era caldo quel sole. Fuori dal mondo per due giorni, dal 25 al 27 aprile. Ricordo con chiarezza  che appena rientrati a Roma, all’edicola della stazione Termini, fummo attirati dai titoli a caratteri cubitali sul disastro nucleare di Chernobyl. Ricordo anche il  vortice in cui in un attimo precipitammo Pietro ed io. Continuavamo a guardarci negli occhi e a rivolgere lo sguardo verso i titoli di giornale, non capivamo che cosa stesse succedendo ma sapevamo che qualcosa di tremendo era accaduto. Tutto sembrava uguale, cielo, terra, rumori, suoni, tutto era familiare, come sempre. Eppure. Già, eppure ci ritrovammo calati in un universo parallelo senza capire cosa  ci aspettasse. Mia madre  aveva capito che non bisognava bere latte fresco, né mangiare latticini, né acquistare verdure e frutta senza buccia. Comprammo scorte di latte uht e da allora in poi cercammo prodotti  confezionati prima del 26 aprile. Acquistammo per tanto tempo prodotti freschi provenienti dal Sud Africa o dal Sud America.  Non c’era internet, né i cellulari ma solo la televisione e la radio che trasmettevano comunicati contraddittori, “invitando” a fare o non fare, tutto e il contrario di tutto. Tenemmo chiuse le finestre per lungo tempo, comprammo acqua in bottiglia (cosa inimmaginabile allora), e da allora tutti i concentratori biologici di radiazioni  – funghi, molluschi – furono banditi dalla nostra casa. In Scandinavia vennero abbattute la maggior parte delle renne che si nutrivano di muschi, altri concentratori biologici di radioattività, e pochi anni dopo scoprimmo che il popolo nomade Lappone che viveva di allevamento di renne, avendo perso la propria identità culturale, aveva un tasso altissimo di alcolisti e suicidi.  Ora i Lapponi vivono di turismo, di immagine. Vendono ai turisti una narrazione che non gli appartiene più e che non possono, anche volendo, ricostruire.  Dopo le immagini terribili delle macerie della centrale nucleare di Chernobyl, arrivarono le immagini delle persone, uomini, donne, bambini che morivano. Per centinaia di chilometri dalla centrale, era stata vietata la coltivazione, la vita. Man mano che passava il tempo apprendevamo con orrore gli effetti di quel disastro nucleare che dopo aver ucciso 4000 persone, continuavano a manifestarsi in leucemie, tumori, patologie infauste. Arrivarono tanti “bambini di Chernobyl” in Italia, ospitati nelle famiglie, per respirare un po’ di aria buona, per trovare una nuova casa, per cercare di curarsi da quel male invisibile che li stava divorando  dall’interno. Molti restarono da noi, altri rientrarono in Ucraina, altri, molti altri, non riuscirono a sopravvivere. In Italia i referendum abrogativi dell’8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «sì», che di media nei cinque quesiti raggiunsero circa l’80% delle preferenze e si chiuse così, sperando per sempre, la parentesi nucleare nel nostro paese. Ricominciammo a vivere, a cercare di dimenticare. Con Pietro ci lasciammo poco tempo dopo ma siamo rimasti in contatto, ci vogliamo un gran bene. Ora sta cercando di difendersi da una brutta leucemia e sono certa che come me in questi giorni stia pensando a quanto abbiamo condiviso quel lontano 27 aprile del 1986.

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